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islamNel libro
Cultura Islamica Italiana di Francesca Bocca-Aldaqre si dice ad un certo punto:
Anche un’identità costruita attorno all’estetica è inautentica. L’Islam ridotto a ciò che appare genera l’illusione di un primato della forma. È l’equivalente spirituale della falsa prospettiva artistica, dove le proporzioni tra diverse componenti generano un trompe l'oeil religioso. Nei millequattrocento anni di storia dell’Islam, la relazione tra apparenza, sostanza ed essenza ha portato alla codifica di una triade che descrive la religione: islām come pratica, imān come fede e iḥsān come perfezione; le tre componenti si nutrono a vicenda ed è nella paziente coltivazione di tutte e tre che avviene la vera crescita spirituale...
L’errore di far dipendere l’Islam dalla sua forma è esacerbato dai social, ma ha una lunga storia nell’Accademia italiana, dove il termine ortoprassi è stato utrilizzato da generazioni di islamologi.
È, anche questa, una descrizione inautentica.
Tornando ai social, il lavoro di “decifrare il caos visivo” su Tiktok, portato avanti da Agustina Panzoni, è arrivato a una realizzazione finale: viviamo in una cartoonification dell’apparenza, in cui aspetto fisico e abbigliamento diventano iper-reali e ogni micro-trend effimero è come il cambio avatar di un videogioco, spinto più dalla noia che da una finalità comunicativa.
Confrontato con altre forme di abbigliamento religioso, il velo sembra più vulnerabile ai micro-trend; tutorial per veli estivi e invernali, abbinati alla palette di nuovi film in uscita e alle nuove collezioni dei giganti del fast-fashion.
È una distorsione che, mentre all’interno della comunità islamica è discussa soltanto in un’ottica normativa, è completamente ignorata al di fuori.
Eppure, #hijab è protagonista sproporzionato di micro-trend, mentre kippah, velo ortodosso, tonaca cattolica o kesa buddista rimangono inalterati.
È anche frequente vedere donne musulmane coprire i capelli e al tempo stesso tralasciare altri aspetti dell’abbigliamento islamico; un fenomeno da leggere senza i paraocchi islamofobi della ‘sottomissione femminile’, e rimanendo al tempo stesso liberi da un puritanesimo giudicante.
Stiamo assistendo al passaggio del velo da simbolo a emblema, da legame con il trascendente a, etimologicamente, qualcosa di gettato-dentro, un vessillo, una bandiera che anziché esprimere una spiritualità coerente serve unicamente come scorciatoia di categorizzazione, semplicemente #hijab.
fonte:
newsletter dell'IISA - Istituto Islamico di Studi Avanzati