30 Gen
2014
Tre anni dopo. Cosa rimane del Secondo Risveglio Arabo - Eugenio Dacrema

Argomento: societacostume | 3072 | 0 | società

Primavere arabeQuesta settimana si è chiuso ad Amman il quarto meeting internazionale dei blogger arabi, la notizia è passata sottotono anche fra coloro che si occupano quotidianamente di Medio Oriente...

I motivi sono piuttosto evidenti: c'è Ginevra 2, il processo di pace che è ripreso fra Israele e i palestinesi, i massacri in Siria e Iraq, il Libano sull'orlo del caos, la Libia che nel caos ci è già, e l'Egitto che sta per festeggiare il terzo anniversario della sua rivoluzione tra esplosioni e nuove proteste.
Rispetto all'ultima volta in cui si erano incontrati a Tunisi nel settembre 2011, il meeting di Amman si è svolto molto più sottotono, a porte chiuse. Ma non è difficile immaginare di cosa possano aver parlato gli ex eroi dimenticati delle rivolte del 2011.
Rispetto all'entusiasmo di Tunisi, il sentimento prevalente oggi è certamente un altro: disillusione. Delle grandi promesse che il futuro sembrava aver fatto al mondo arabo tre anni fa sembra rimasto ben poco: la Siria è un vortice di sangue che rischia di aspirare al suo interno anche Iraq e Libano, la Libia è vicina all'essere uno stato fallito e l'Egitto sembra ormai avviato verso il ritorno a un quasi-regime militare all'insegna dell'uomo forte. In Marocco e Giordania le timide aperture che si erano viste nei momenti più intensi del 2011 sono state rapidamente ritirate una volta che la situazione si è stabilizzata. Solo Tunisia e Yemen sembrano avviate verso una qualche forma di concreto cambiamento istituzionale, ma basta chiedere a un qualunque giovane tunisino se è soddisfatto per ricevere come risposta un sorriso amaro che vale più di mille parole.
Ma dove si è sbagliato? A che punto ci si è persi? La risposta è semplice, anche se non è scontata. L'errore originale è stato pensare che il cambiamento fosse a costo zero o quasi. Nel breve termine, cambiamento in politica è spesso sinonimo di instabilità, conflitto sociale e crisi economica. Inoltre, queste società scontavano l'enorme fardello dei decenni di Guerra Fredda che avevano visto la legittimità politica personalizzarsi e svilupparsi in funzione del supporto esterno o dell'impegno in un conflitto simbolico come quello arabo-israeliano. Propaganda e postura internazionale - veritiere o fittizie - per decenni sono servite a mascherare la decadenza della società civile che avveniva all'interno.
Il 2011 ha dimostrato come il dilagare di corruzione e repressione non si fosse fermato ai governanti, ma ha spesso riguardato anche i governati. La corruzione era diffusa nell'apparato statale come fra la gente comune e le divisioni settarie sulle quali alcuni dittatori basavano la propria legittimità erano profondamente radicate all'interno della mentalità di tutti. La stessa repressione che i regimi applicavano contro gli oppositori è stata poi applicata nuovamente dalle diverse fazioni si sono succedute al potere negli ultimi tre anni contro coloro che mostravano di avere idee diverse. Gli islamisti sui liberali, i militari sugli islamisti, in un vortice di polarizzazione sociale che ha coinvolto tutti - dalle leadership ai semplici sostenitori delle diverse parti politiche - dimostrando un'amara verità: la gente normale è intollerante verso coloro che la pensano diversamente almeno quanto lo erano i regimi abbattuti tre anni fa.
La crisi economica ha fatto il resto. L'entusiasmo politico - deluso dalla mancanza di risultati concreti - ha fatto spazio all'apatia e al fatalismo. Ancora una volta la ricerca dell'uomo della provvidenza (al-Sissi in Egitto, ma anche Assad o la monarchia marocchina) è ritornata a essere la scorciatoia ideologica per risolvere tutti i mali della società.
Ma è quindi un ritorno al passato in attesa di tempi migliori quello che dobbiamo aspettarci? Lo status quo ha vinto ancora? Si e no. Nel breve periodo questo sembra innegabile, ma il 2011 ha portato nella regione un fatto nuovo di cui prima non c'era traccia e che sarà certamente determinante nei prossimi anni: il re è nudo.
Per la precisione, è meglio dire i re nudi sono diversi. Innanzi tutto lo sono le grandi narrative propagandistiche che hanno tenuto banco nella regione per decenni: l'asse della resistenza e l'alleanza sunnita, capitanate rispettivamente da Iran e Arabia Saudita. Con la perdita di Hamas, la grande alleanza fra Iran, regime siriano e Hezbollah libanese ha perso ogni simbolismo anti-israeliano. Hezbollah è ormai totalmente impegnata nello sforzo bellico in Siria, assai più di quanto lo sia mai stata contro Israele, mentre il regime di Assad assedia da mesi il campo palestinese di Yarmouk, alle porte di Damasco, dove la gente ormai muore quotidianamente di fame e di freddo. È evidente ormai il carattere sempre più settario - sciita - dell'alleanza, e forse neanche quello. A unirne i membri appare sempre più la disperata volontà di tenere in piedi un traballante ordine di potere privo ormai di ogni base simbolica.
La stessa cosa si può dire della grande alleanza sunnita, quella che vedeva l'Arabia Saudita opporsi ai miscredenti sciiti. La guerra aperta ingaggiata dalla monarchia contro i Fratelli musulmani - sunniti, ma propugnatori di una ideologia concorrente a quella monarchica wahabita - ha dimostrato come anche per i Custodi dei Luoghi Sacri dell'Islam l'appartenenza religiosa conti fino a un certo punto se in gioco c'è la sopravvivenza del regime. Sia la Repubblica Islamica sia la dinastia degli al-Saud hanno perso oggi ogni legittimazione ideale, rivelando una natura ben più traballante di meri distributori di rendita.
A questo si deve aggiungere il radicalmente mutato ruolo degli Stati Uniti, per molto tempo visti nella regione come gli artefici di ogni male del mondo. L'America protagonista delle più avvincenti teorie della cospirazione che andava alla ricerca di ogni modo per condizionare e infilarsi nei giochi mediorientali non esiste più. Washington è stanca di Medio Oriente. Ha fretta di chiudere le partite ancora aperte con Iran, Israele, palestinesi e siriani con compromessi accettabili e senza perdere troppo tempo. E poco importa se Tel Aviv e Riyadh, i grandi alleati di sempre, si sentono smarriti. Il mondo è cambiato, e l'America non può (e non vuole) più fare il guardiano per tutti.
Ma è dentro gli stati protagonisti della Primavera araba che si sono infrante le certezze più durature. È vero che l'Egitto rischia di tornare al regime militare in stile nasseriano. Ma al-Sisi non è Nasser, e il timido risultato dell'affluenza dell'ultimo referendum costituzionale dimostra che molti egiziani se ne sono già resi conto. Intanto a Damasco Assad potrà anche restare sul suo trono, forte del suo esercito e delle sue alleanze internazionali. Ma pochi in futuro potranno prendere ancora sul serio lui e la sua propaganda anti-imperialista, sia dentro sia fuori della Siria.
Dal canto loro, gli islamisti - per decenni l'opposizione repressa dei regimi militaristi e laici, nonchè la grande alternativa inespressa per la regione - in questi tre anni hanno avuto diverse grandi occasioni di riscatto, e sono riusciti a sprecarle una dopo l'altra. La caduta di Mohammed Morsi in Egitto dopo una gestione del potere scellerata è stata appoggiata da manifestazioni numericamente superiori a quelle del 2011. Nel frattempo in Tunisia gli islamisti di Ennadha - dopo il fallimento del loro governo - si sono dovuti arrendere a condividere il potere con i liberali per evitare di fare la stessa fine. Perfino la Turchia di Erdogan, nel 2011 il grande modello di Islam in politica a cui tutti guardavano, oggi vacilla pericolosamente insieme alla fede generale nella risposta islamica ai problemi del mondo arabo.
Insomma, anche se la situazione oggi è ben lontana da quella in cui si sperava tre anni fa, la Primavera araba ha avuto finora almeno il merito di mettere a nudo i grandi equivoci che per lunghi decenni hanno retto lo status quo in questa parte del mondo. Il 2011 ne ha distrutto le basi simboliche lasciandone in bell'evidenza tutte le contraddizioni. Ma ha anche dimostrato che non bastano pochi tweet e slogan di piazza per innescare un cambiamento duraturo in una mentalità collettiva assopita da decenni di dittatura, e ai giorni gloriosi della rivolta devono seguire gli anni duri e logoranti della ricerca e della costruzione di un nuovo ordine sociale. Di questo si sono certamente accorti i ragazzi disillusi riuniti ad Amman e i loro coetanei in tutto il mondo arabo. E in una regione fra le più anagraficamente giovani del globo questo è già un buon motivo per essere ottimisti. La storia - dalla rivoluzione francese alla decolonizzazione - dimostra che per il cambiamento vero serve molto tempo. Una risorsa che questi ragazzi hanno in abbondanza.

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