17 Dic
2013
L'autunno siriano secondo Golan Haji - Intervista di Monica Ranieri per Frontierenews

Argomento: societacostume | 2875 | 0 | società

Golan Haji, poeta curdo sirianoIncontro Golan Haji, poeta curdo siriano, a Bari, dove è stato invitato per presentare la sua raccolta di poesie L'autunno qui, è magico e immenso, edita da Il Sirente. Ho il libro tra le mani e lo sguardo continua a soffermarsi su alcuni versi che avevo sottolineato leggendolo. La mia ombra, appena calpestata/ si ripara sotto di me/ e le mie parole/che sono il mio deserto e mi fan male/si accampano intorno a me...

L'espressione degli occhi di Haji mentre mi racconta della Siria, dei diritti del popolo curdo, e del suo muoversi lungo ed oltre i confini delle scritture e delle lingue, e il tono vibrante della sua voce, mi hanno condotto amichevolmente lungo i sentieri che le parole accampate tracciano attraversano il deserto.
Quando hai lasciato Damasco non si parlava ancora di guerra civile e in Occidente la rivolta siriana veniva inglobata miopemente in un concetto vago di Primavera Araba. Cosa è rimasto, secondo te, dello spirito dei primi manifestanti in piazza?

La catastrofe in Siria ha un volto composito e tragicamente completo: l'attuale situazione di caos potrebbe dare luogo a qualsiasi sviluppo, a risultati che nessuno può prevedere. Nel frattempo sta distruggendo il paese e la stessa popolazione. A livello politico non può essere considerata solo una questione siriana, si tratta in realtà di una vergogna internazionale: a fronte di leggi internazionali, potenti stati che detengono il controllo della sicurezza internazionale e che sin dall'inizio avrebbero potuto fare qualcosa hanno preferito non fare nulla. La situazione si è quindi andata deteriorando e il Paese è attraversato da profonde fratture che potrebbero risolversi in modi anche più catastrofici. In questa cornice lo spirito della rivoluzione appare abbastanza controverso, se intendiamo usare il termine rivoluzione tenendo conto che attribuire un'etichetta alla situazione non è più importante del considerare le vite delle persone, sia di quelle che sono all'interno del Paese, sia di coloro costretti a fuggire. Di fronte a questo scandalo è difficile che ci sia ancora in loro la fermezza nel proseguire un conflitto armato che viene più o meno finanziato e supportato da molte parti dell'area circostante e dalla società internazionale. Sfortunatamente, e per mere ragioni politiche, la fine non è nelle mani dei siriani.

Hai detto che la comunità internazionale avrebbe potuto fare qualcosa sin dall'inizio. Che cosa intendi?

La situazione siriana sembra la dimostrazione di un antico proverbio secondo cui essere un nemico è sempre più facile che essere un amico. Gli amici del popolo siriano, o perlomeno gli alleati che si supponeva li supportassero, si sono dimostrati in realtà poco amichevoli. Non hanno fatto nulla se non creare ancora più devastazione. Dall'altro lato i nemici del popolo, i paesi che supportano il regime, hanno fatto di tutto per includerlo come parte della soluzione nell'accordo di Ginevra. Ma come è possibile che il responsabile della situazione diventi una parte della sua soluzione? Una colpa è da attribuire anche al modo in cui sin dall'inizio l'informazione è stata veicolata e manipolata.
Tutti noi siriani lo sappiamo e ne serbiamo memoria: le prime manifestazioni pacifiche del 15-18 marzo nella città vecchia di Damasco non sono state coperte per nulla da alcuni canali come Al Jazeera, che poi hanno giocato un ruolo nella cosiddetta primavera araba. La copertura fu di appena qualche riga perché c'era all'epoca un accordo tra il regime e la monarchia del Qatar. Da quando questo accordo è saltato Al Jazeera ha cominciato ad attaccare il regime. Adesso se ne parla come di una guerra civile, ed è certamente corretto, ma all'inizio, quando su questa situazione si sono accesi i riflettori, si è fatto in modo di presentarla semplicemente come un'altra tragedia nella storia del mondo, rendendo le persone gradualmente neutrali, indifferenti. Ma il punto è che non riguarda solo i siriani, o quelli che sono considerati retrogradi e religiosi.
La responsabilità dipende anche, per quanto riguarda l'Occidente, da una visione che l'Europa ha costruito intorno all'Islam, di cui si parla quando negli Usa viene bruciato il Corano o quando si deve decidere se costruire o meno le moschee in Svizzera. Si riconduce tutto all'islamismo, falsificando la realtà. Quello di cui ci si ricorderà saranno semplicemente uomini con barbe lunghe, che imbracciano armi, che sparano, nel mezzo del nulla. Un'immagine generale che proviene da un arrogante punto di vista bianco del potere per cui io sono il più forte e posso fare quello che voglio anche quando questo significa semplicemente non fare niente.

Domenico Quirico, giornalista italiano rapito in Siria e poi liberato, l'ha definita il Paese del male. Dalla tua poetica invece esce fuori un paese che soffre e che quel male lo rifugge.

Questo mi ricorda quando gli Usa definirono Iraq, Iran e Corea del Nord come l'Asse del Male in riferimento al terrorismo internazionale. La sua esperienza in Siria è stata davvero dura, ma quello che ha visto non è usuale: le sue parole vanno a rafforzare una narrazione sulla Siria, e sul Medio Oriente più in generale, già esistente rispetto alla quale i media cercano prove e tutto quello che si discosta rappresenta un'eccezione. Gente pacifica e civile rappresenta un'eccezione, la regola sono quelli armati, gli islamisti.
È più semplice. In Occidente, e questo è il punto cruciale, non è possibile credere che migliaia di persone manifestino in piazza pacificamente. Sembra un sogno, qualcosa di non reale, ma quando il processo va avanti trasformandosi nel sanguinoso conflitto che ora è, allora tutto appare più reale perché risponde a quella visione preconfezionata. Si pensa che sia normale, che le persone che stanno soffrendo non sono solo vittime, sono in guerra. Credo che in generale in Occidente si sta dipingendo il regime come l'elemento che sopravvive, che addirittura protegge le minoranze, le religioni, e in questo modo passo dopo passo la tragedia diventa qualcosa di normale, parte della storia che viene dimenticata facilmente.
Al cuore della questione c'è la volontà di lasciare il potere nelle mani del regime, e non esistono pressioni utili per domarlo: tutte le misure prese dai governi occidentali e l'imposizione delle sanzioni economiche non fanno soffrire che la popolazione. E queste organizzazioni che prendono il premio Nobel per la pace considerano una vittoria il disarmo delle armi chimiche e il raggiungimento di un accordo politico, un compromesso che consentirà al regime di sopravvivere mentre il conflitto potrà andare avanti incessantemente. Ed è difficile immaginare cosa rimarrà, perché dopo questo caos niente può essere facilmente costruito o anche semplicemente compreso.

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