18 Nov
2013
Non allinearsi paga: la diplomazia vincente dell'Oman - Eleonora Ardemagni

Argomento: societacostume | 3058 | 0 | società

Nello scenario mediorientale che si sta delineando ultimamente, l'Oman trae vantaggio dalla sua tradizionale politica di non-allineamento nella regione: è infatti l'unico paese mediorientale a conservare buone
relazioni sia con le monarchie sunnite del Golfo, sia con l'Iran sia con gli Stati Uniti...

Così, mentre il Medio Oriente vive una diffusa polarizzazione tra governi filosauditi e filoiraniani, la salienza della politica estera omanita risiede semplicemente nel poter parlare con tutti i suoi vicini. Tale facoltà potrebbe, per esempio, fare la differenza nella tortuosa transizione del confinante Yemen; qui, i principali attori regionali (Arabia Saudita, Qatar, Iran ma anche gli Stati Uniti) si contendono quote di influenza politica nel nuovo-vecchio establishment, al potere dopo le dimissioni del presidente Ali Abdullah Saleh.
Già nell'autunno 2012 la diplomazia omanita, insieme a quella del Kuwait, si prodigò affinché al-Hiraak al-Janubi, il Movimento meridionale yemenita, partecipasse al dialogo nazionale, incaricato sia di emendare la carta costituzionale sia di rivedere l'architettura istituzionale della repubblica arabica; la mediazione di Muscat venne sollecitata proprio dal presidente ad interim di Sana'a, Abdu Rabu Mansour Hadi.
All'interno di al-Hiraak convivono numerose anime politiche, divise tra coloro che lavorano a una soluzione di impianto federale e chi invece sostiene la suggestione separatista; tra questi ultimi vi è uno dei tre leader in esilio del movimento, Ali Salem al-Bidh, residente a Beirut e sospettato di ricevere finanziamenti dall'Iran.
Guardando alla varietà degli attori regionali coinvolti in Yemen, è semplice comprendere perché proprio la diplomazia del sultanato abbia più chance di successo rispetto ad altre.
Anche in questo caso, l'interesse nazionale è una componente-chiave della politica estera: l'Oman teme la vitalità di al-Qaida nella Penisola Arabica (Aqap), poiché molte cellule a essa affiliate sono attive nel sud dello Yemen, in prossimità della regione omanita del Dhofar, storicamente inquieta.
Muscat sta perciò progettando la costruzione di una barriera di sicurezza lungo il suo confine occidentale (come già i sauditi hanno fatto a ridosso del territorio yemenita), per contrastare immigrazione illegale, contrabbando di armi e, appunto, transiti jihadisti e/o qaedisti. Da alcuni anni le forze di sicurezza omanite sono già dispiegate a protezione del confine ovest: l'incapacità delle autorità di Sana'a di esercitare la propria sovranità sul territorio preoccupa Muscat assai più di quanto non facessero gli aggressivi proclami dell'allora presidente iraniano Mahmoud Ahmadi-Nejad.
Nel 2010, l'Oman e l'Iran hanno infatti siglato un patto di difesa, che prevede esercitazioni militari congiunte; già questo basterebbe a evidenziare quanto non convenzionale sia la politica estera del sultanato, se paragonata a quelle degli altri membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg), ovvero Arabia Saudita, Qatar, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait.
Muscat può pertanto presentarsi come un interlocutore credibile agli occhi di Teheran, data l'abitudine al ruolo di partner: si pensi alla cooperazione per la sicurezza marittima nello stretto di Hormuz (in chiave anti-pirateria), nonché alla gestione del campo petrolifero e gasifero off-shore di Hengam.
La partnership fra il sultanato e la Repubblica Islamica funziona perché assicura un trade-off politico ed economico vantaggioso: l'Oman - che necessita della collaborazione dell'Iran per raggiungere le rotte commerciali dell'Asia centrale - ha sempre difeso il diritto iraniano all'arricchimento dell'uranio, senza però alienarsi la fiducia della Casa Bianca.
Esibendo una certa consuetudine con l'Iran, Muscat riesce inoltre a controbilanciare l'influenza del vicino saudita e l'invasività del rigido pensiero wahhabita da questo professato.
Da un punto di vista storico, in Oman vi è ancora un vivo senso di gratitudine nei confronti dell'appoggio militare che lo shah Reza Pahlavi assicurò alle truppe del sultano contro l'insurrezione del Dhofar, avvenuta tra il 1964 e il 1975. La prospettiva di un'escalation militare contro l'Iran - che la nuova presidenza Rouhani pare aver allontanato - ha comunque convinto l'Oman a cercare, da tempo, una via commerciale alternativa allo stretto di Hormuz (la cui chiusura è stata spesso minacciata negli anni di Ahmadi-Nejad). Non è dunque un caso che il sultanato abbia scelto di investire molto nella costruzione del porto di al-Duqm, hub commerciale affacciato sul Mar Arabico e proteso a Oriente.
Un altro fattore che semplifica la diplomazia regionale dell'Oman è la religione ibadita, ovvero la terza via dell'Islam (fra sciismo e sunnismo), professata dal 75% circa degli omaniti. A questo riguardo, il sultano Qaboos bin Al-Sa'id è solito evitare il ricorso a discorsi politici settari, presentando il suo paese come una società cosmopolita capace di valorizzare i diversi apporti culturali, tra cui quello sciita (il 20% circa dell'intera popolazione).
Finora, questo stratagemma ha protetto l'Oman. Trovandosi in una posizione geopolitica potenzialmente a rischio - stretto fra l'Iran sciita e le monarchie sunnite - sembrerebbe che Muscat abbia pochi margini politici di manovra. Tuttavia il sultano è riuscito a costruire, negli anni, l'immagine di uno Stato solido e affidabile proprio attraverso una politica estera alternativa e riconoscibile, capace persino di incidere sulla percezione esterna dell'arena politica e sociale omanita.
Questo atteggiamento diplomatico ha trasformato le tante insidie circostanti in utili occasioni di miglioramento del rango regionale, senza imbrigliare Muscat in rigidi blocchi d'appartenenza politico-confessionali. Perché l'Oman è nella Penisola arabica, ma innanzitutto è una porta sull'Oceano Indiano e l'Asia meridionale.
Due eventi recenti sottolineano la tempestività diplomatica di Muscat.
Lo scorso agosto, il sultano fu il primo capo di Stato a far visita al presidente iraniano Hassan Rohani a Teheran; in quell'occasione, Qaboos ebbe un colloquio anche con il rahbar (la Guida suprema) Ali Khamenei, artefice primo e ultimo della politica iraniana. Il viaggio del sultano dell'Oman nella Repubblica Islamica ricevette un'attenta copertura da parte della stampa persiana, alimentando voci in merito a un presunto messaggio statunitense che Qaboos avrebbe riferito ai vertici di Teheran, prospettando così la possibilità di negoziati indiretti fra Usa e Iran.
Tale ricostruzione è stata smentita, ma rimane un fatto incontrovertibile: nelle settimane successive, Teheran e Washington sono tornati a discutere del dossier nucleare. Quasi in contemporanea, vi è stata poi la svolta in Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con l'approvazione della risoluzione relativa alla distruzione dell'arsenale chimico del regime di Damasco.
E la visita del sultano dell'Oman in Iran avvenne negli stessi giorni in cui Jeffrey Feltman, vice di Ban Ki-Moon alle Nazioni Unite e già ambasciatore di Washington in Libano, si trovava nella capitale siriana per discutere dell'organizzazione della conferenza di pace di Ginevra II.
Nonostante l'Oman appartenga al Ccg, è fin qui riuscito a perseguire una politica estera originale fuori dai tradizionali schemi arabi; una duttilità molto preziosa, se calata in un contesto fluido come quello mediorientale. Ecco perché Muscat non ha bisogno di riposizionarsi dinnanzi alle recenti aperture politiche di Hassan Rohani. Lo scorso gennaio, il portavoce del Bureau of Near Eastern Affairs del dipartimento di Stato Usa, Aaron D.Snipe, definì la politica estera omanita come 'the smartest and most forward-looking in the region'.
Una riflessione simile è stata avanzata dal nostro ministro degli Affari Esteri, Emma Bonino, nel corso di una recente visita ufficiale in Oman.
Inoltre, il clima invidiabile che circonda il sultanato potrebbe aiutare Muscat ad allontanare l'attenzione internazionale (e statunitense) dal malcontento popolare interno, diminuendo le pressioni esterne per le riforme. Nel corso del 2011, anche l'Oman ha vissuto manifestazioni di protesta contenute ma tenaci concentratesi nei principali centri urbani costieri, come Sohar e Sur nel nord e Salalah, nella parte meridionale del paese.
Nel rapporto fra l'Oman e gli Stati Uniti, sicurezza internazionale e sicurezza del regime si confondono. Infatti, la lotta all'islamismo militante si presta a un gioco a due livelli, nel quale Muscat asseconda le richieste securitarie dell'alleato statunitense e allo stesso tempo se ne serve, strumentalmente, per colpire le fonti di potenziale dissenso interno.
Nel 1980, a seguito della rivoluzione islamica a Teheran, gli Stati Uniti siglarono con l'Oman un accordo di difesa, il primo con un paese del Golfo (Washington può ancora oggi utilizzare, previo avviso e giustificazione, le basi aeree di Muscat, Thamarit nel Dhofar e quella nell'isola di Masirah). Complice un anti-americanismo diffuso e sempre latente, il sultanato si è impegnato a dare poca visibilità alla presenza di personale militare statunitense nel paese (spesso invitato a mostrarsi in abiti civili) e progetta di concentrarne il quartier generale nell'appartata isola di Masirah, in pieno Mar Arabico.
L'Oman è una base logistica centrale per la missione Nato in Afghanistan: a oltre trent'anni di distanza, la Casa Bianca ha ancora bisogno del canale diplomatico e militare omanita. Perciò, potrebbe continuare a chiudere un occhio davanti alle promesse disattese (o annacquate) dal sultano, in termini di miglioramento delle condizioni economiche e sociali e di maggior trasparenza istituzionale.
Oltre agli emendamenti alla legge sul lavoro e allo svolgimento delle prime elezioni municipali - avvenute nel dicembre 2012 - il percorso di autoriforma intrapreso da Qaboos si sta rivelando lento e poco incisivo. Egli si è infatti limitato ad annunci di forte impatto mediatico (come i provvedimenti contro la corruzione nel settore pubblico) e misure-tampone (si pensi all'aumento del salario minimo dei lavoratori privati).
L'analisi della politica estera dell'Oman suggerisce un paio di considerazioni e un paragone con l'iperattivismo diplomatico del Qatar. Doha ha rapidamente plasmato la propria proiezione estera intorno ai vettori finanziario ed energetico, trasformando lo stesso Qatar in un marchio di successo.
Muscat ha invece investito, lentamente, in dialogo e relazioni bilaterali, spesso personali. Siamo forse di fronte alla rivincita del modello classico e durevole di diplomazia (seppur declinato alla mediorientale), contro uno schema, più volatile, fondato sulla rendita e circondato da un'aura, fino a poco tempo fa efficace, di glamour?
Di sicuro, l'Oman sta dimostrando come il ruolo di mediatore nella regione rappresenti un'utilissima risorsa politica, anche per la stabilità domestica.

http://temi.repubblica.it

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